domenica 16 dicembre 2007

CARLO PARLANTI: Ingiustizia!!!


SBAGLIARE E UMANO PERSEVERARE DIABOLICO

E IN QUESTO CASO IL GIUDICE PERSEVERA...



La notizia che a Carlo Parlanti é stata confermata la condanna a 9 anni di reclusione mi spinge a riscrivere, per chi ancora non la conosce, la sua travagliata storia. Una storia di cui si é parlato troppo poco, i giornali e la Tv ne hanno parlato pochissimo, tanto che a parte le iniziative spontanee di pochi che credono alla sua storia, non é successo niente. I politici, si quelli che hanno fatto di tutto per concedere il voto ai residenti all'estero, fanno finta di non sapere, per loro ora gli italiani all'estero valgono meno di niente, e questo fino alle prossime elezioni. Fatto sta che uno di questi italiani, per loro inesistenti, tale Carlo Parlanti, dal 3 giugno 2005 si trova rinchiuso nel carcere di Avenal, California condannato per reati che non ha mai commesso, accusato da una teste squilibrata, durante un processo farsa. Alcuni di voi diranno che é impossibile perché gli Stati Uniti sono garantisti per natura, gli stati uniti sono una grande democrazia, gli Stati Uniti sono i templari del mondo, coloro intervengono prontamente in difesa dei più deboli e degli oppressi. Invece é possibile, é successo, Carlo Parlanti nel settembre 2001, conosce una donna, Rebecca McKay White, La quale a novembre perde il lavoro, è in un momento di difficoltà, in California c’è crisi, c’è paura e c’è recessione. I due si spostano da Monterey al Westlake Village, vicino a Malibu. Vivono sotto lo stesso tetto, la casa di Carlo: i mesi passano, arriva un anno nuovo, il 2002. Nell'estate del 2002 Carlo Parlanti ci pensa di tornare in Italia, forse è stufo di Rebecca McKay White, non ce la fa più, vuole lasciarla. Infatti, il 16 luglio 2002 la storia con Rebecca McKay White finisce: come mai una data così precisa? Perché ci sono varie email spedite ad amici, oltre alle dichiarazioni del processo, che lo testimoniano. Rebecca McKay White viene “messa alla porta” da Carlo Parlanti, che a quel punto ha praticamente deciso di mettere la parola fine all’avventura oltreoceano. Due giorni dopo, il 18 luglio 2002, la donna che ha appena lasciato, sporge denuncia contro di lui: racconta di una notte in cui Carlo Parlanti l’avrebbe prima sequestrata, poi picchiata, in seguito sodomizzata costringendola a praticare il fist fucking, e infine, dopo averla legata con delle fascette di plastica, violentata ripetutamente. Accuse gravissime, accuse che meriterebbero indagini approfondite, perizie, testimoni; in una parola, prove. Nel mese di agosto Carlo Parlanti torna in Italia e per ben due anni, dall’estate del 2002 all’estate del 2004, continua a lavorare in Italia e in Europa, libero e ignaro della vicenda fino al mese di luglio del 2004, quando verrà fermato all’aeroporto di Düsseldorf, dove scoprirà un mandato di cattura internazionale a suo nome. Dopo essere rimasto per circa un anno incarcerato in Germania, dall’estate del 2004, alla primavera del 2005, senza che ci fossero prove, evidenze, fatti, che giustificassero il suo fermo, viene estradato e il 3 giugno 2005, viene trasferito in California. A Ventura viene istruito contro di lui un procedimento penale. Il processo produrrà una serie inimmaginabile di prove create dal nulla, a volte comparse direttamente, come nel caso delle foto, su richiesta del district attorney, di testimonianze ritrattate e confuse, di accuse prive di fondamento e indimostrabili. Nel dettaglio: il procuratore distrettuale parla di Carlo Parlanti, come un delinquente. Si parla di precedenti penali per rapina a mano armata, violenze assortite, tutti reati commessi in Italia. In realtà l’estratto della fedina penale del Parlanti é sia lindo, pulito. Ma questo é solo solo l'inizio, Rebecca McKay White dichiara: che Carlo Parlanti avrebbe ingerito, prima di abusare di lei, nella notte del 29 giugno. Quattro litri di chardonnay in circa cinque ore; una quantità che l’avrebbe portato alla morte, visto che comporta un BAC – il blood alcool content - di circa 0,63, ed il coma etilico sopraggiunge già intorno a 0,40; che ha avuto una fortissima emorragia in seguito al braccio che Carlo Parlanti le avrebbe prima infilato a pugno chiuso nella vagina, e poi, con il palmo della mano aperto, nel retto. Un’emorragia che, sempre secondo Rebecca McKay White, aveva lasciato tracce nel letto, chiazze di sangue che erano passate attraverso le lenzuola fino a inzuppare il materasso. Ma la polizia che si reca in casa non trova nulla. Trova l’ordine, trova il letto rifatto; che é il suo viso é stato sbattuto per decine di volte su una parete di cartongesso, che viene trovata perfettamente integra, è tutto perfettamente in ordine. Nessuno ha visto operai o qualcuno che possa avere effettuato delle riparazioni. Carlo Parlanti nel frattempo è altrove, sempre negli Stati Uniti, a Gulfport, nello stato del Mississippi e non sa nulla. La donna già in passato, in occasione del divorzio dal primo marito, aveva manifestato segnali di instabilità psichica, ora durante il processo, ammette candidamente di avere problemi con la memoria a breve termine, il che torna utile, se si deve giustificare davanti ad un avvocato, davanti ad una corte, ad una giuria, come mai si è voluto ritrattare, anticipandolo di una settimana, il giorno più traumatico della propria vita. Una delle prove più sconvolgenti, presentate da Rebecca McKay White, e incredibilmente ritenute valide, sono le due foto in cui è ritratta con un vistoso ematoma in corrispondenza dell’occhio sinistro. E’ una foto che compare dopo anni dalla denuncia, dopo tre anni, in pratica su richiesta del district attorney: ed è un falso. E’ un falso che però risulterà decisivo per la condanna di Carlo Parlanti. Perché è un falso? Per capirlo basta guardare le due immagini, quelle presentate dopo tre anni, quelle con l’occhio sinistro segnato da un livido bluastro, e un’altra immagine, scattata dalla polizia di Ventura in occasione della denuncia, il 18 luglio 2002. La stessa persona, che però presenta qualche anno di differenza, un taglio di capelli diverso, la pelle più liscia. Non solo: in sede dibattimentale Rebecca McKay White sostiene di essersi scattata quelle foto nel bagno della casa di Carlo Parlanti, seduta sulla toilette. Le foto presentate da Rebecca McKay White, scattate con una compattina usa e getta, hanno uno sfondo bianchissimo con riflessi azzurri. Nonostante sia evidente si tratti, si, della stessa persona, ma in anni e luoghi differenti – dettagli da niente, per una prova di reato… – rispetto a quelli dove fu commessa la presunta violenza, incredibilmente viene emessa una condanna contro Carlo Parlanti. Sono nove gli anni di reclusione cui viene condannato Carlo Parlanti. Da scontare nel penitenziario di Avenal, dove le cose si mettono, prima ancora che male, peggio: viene coinvolto in una rissa, non si sa come, ma contrae l’epatite C. Soffre di piorrea, perde i denti. Reagisce male, come reagisce un innocente in galera senza un motivo. Il 10 dicembre c'é stato l'appello e Carlo Parlanti sperava che in tribunale emergesse la verità, ma....in realtà non succede assolutamente nulla, anzi, qualcosa succede, il giudice d'appello é lo stesso, le prove non prove le stesse e sono lì, agli atti processuali, bastava esaminarle attentamente e giudicare. Il giudice, ripeto lo stesso giudice del primo processo, non fa altro che confermare il massimo della pena: 9 ANNI>

sabato 15 dicembre 2007

Shardana




Chi erano i Shardana (SARD-ENA/INA/ANA sono suffissi qualificativi dell’antico asiano e indicano qui: gente di SARD, SARDON/SARDÒ sono senza suffisso etnico. SARDINIA secondo l’Autran deriva “ da un etrucheggiante [asiano] sottostente”: SARTNA, ZARTNA [=SART-nna], come ha visto bene lo Schulze. La parola SHRND appare per la prima volta in caratteri fenici in una stele rinvenuta presso l’antica città di Nora; è una prova importante, ma non l’unica, che attesta l’origine del nome Sardegna e dei suoi abitanti. Il nome Shardana deriverebbe quindi da Shardin, Sher-Dan (Principi di Dan) così chiamati perchè probabilmente erano mercenari che si unirono alla tribù di Dan durante l’esodo degli Ebrei dall’Egitto verso la Palestina. Le varianti SARD-INIA, SARD-ONIOI/UNIOI, SARDINIOS gelos, testimoniano in questo senso) che gli egizi ebbero contro più volte in battaglie svoltesi in Siria, in Palestina, in Africa e sul mare, ma anche al loro fianco, incorporati nel proprio esercito.
Gli Shardana come abbiamo visto entrarono in Egitto in veste di mercenari già sotto il regno di Amenofi III. Soldati di professione, gli Shardana combattono sia con gli Egizi (contro Libici) e sia contro (battaglia con gli Ittiti). Sotto il regno di Ramses III alcuni di loro divennero addirittura guardie scelte del faraone. Gli egiziani quando li citano li chiamano " Shardana n p iam " vale a dire: " I Shardana del mare " ; e ancora , che essi vengono " dalle isole che sono in mezzo al gran mare " . Isole che secondo i testi egizi, sono site all' estremo nord del mondo. Tutte le localizzazioni topografiche non lasciano dubbi sulla patria di origine dei Shardana, che era la Lidia, ormai accettata dalla maggioranza degli studiosi, é da quella regione che essi mossero, a più riprese nel corso di vari secoli, in diverse direzioni, che infestano i mari vicini, trafficando o pirateggiando, sostenendo battaglie navali e terrestri. Essi sono i padroni incontrastati di tutto il Mediterraneo orientale.
Secondo gli storici, dopo essere stati respinti, insieme alla coalizione dei Popoli del Mare, nel 1229, da Mernephtah alle foci del Nilo si riversarono in Palestina e Fenicia mettendo tutto a ferro e fuoco. La documentazione più consistente e attendibile che parla del glorioso passato degli antichi Sardi è soprattutto egiziana: le iscrizioni ed i bassorilievi dei templi di Abu Simbel, Karnak e Medinet Habu ed il papiro Harris. Gli antichi Egizi riportano inoltre un'accurata descrizione di questi uomini. Li dipingono completamente rasati, muniti di un elmo rotondo con due corna di toro e una protuberanza centrale a forma di dischetto. Di loro scrivono che usano lunghe spade, lunghe lance, pugnali e, soprattutto, lo scudo tondi; sono vestiti con un gonnellino corto, una casacca ricoperta di borchie di metallo e un elmo tondo provvisto di corna e portano baffi e basette ricciuti. Il particolare dello scudo tondo è molto rilevante in quanto, a quell' epoca, nessuno lo utilizzava. Un’immagine che coincide in maniera strabiliante con i bronzetti nuragici raffiguranti guerrieri con i Shardana ritrovati in Sardegna e risalenti addirittura all’età del bronzo che non consente dubbi sull'identificazione. E' palese quindi che nel periodo nuragico, accanto al popolo dedito alla pastorizia ed all’agricoltura ve ne era un altro di grandi navigatori e temibili guerrieri che tra il II ed il I millennio a.C. dalla Sardegna si inserisce prepotentemente sulla scena del mediterraneo. Da questa documentazione si ha inoltre notizia che i Shardana si erano installati nella Fenicia fin dal tempo di Amenophis III (1411-1375 a.C.), e vi risiedettero per circa due secoli. L'alfabeto fenicio veniva elaborato proprio nei secoli in cui la regione era sotto il dominio dei Popoli del Mare ed in particolare dei Shardana, che molto probabilmente hanno anche contribuito in qualche misura a formarlo, e comunque i Shardana conoscevano e scrivevano questi caratteri, lo dimostra la più antica iscrizione rinvenuta a Nora, che fu erroneamente attribuita ai fenici da studiosi frettolosi, i quali sostenevano che se scrivevano in fenicio dovevano necessariamente essere fenici oppure cartaginesi. Ma in realtà in Sardegna non vi sono toponimi e antroponimi fenici né cartaginesi. In realtà quasi tutti gli elementi del paleosardo trovano rispondenza in varie regioni dell'Asia anteriore, dovuti ai Shardana.

I bronzetti


Sono circa cinquecento, in maggioranza conservati nei musei di Cagliari e di Sassari, e tutti, in vario modo e per varia forza e misteriosità, sono capolavori. Sicuramente sotto i nuraghi e sotto terra ve ne sono ancora migliaia, e altrettanti sono volati all’estero insieme a centinaia di “nipotini” , cioè di falsi. Fatto sta che questi bronzetti sardi costituiscono una “brigata” fra le più singolari di tutti i tempi e di tutte le espressioni artistiche. E c’è di più: i personaggi che essi raffigurano, siano re o soldati, pastori o eroi, animali o madri imploranti, sono molto solenni e maestosi, pur se così piccolini; e anche molto simpatici pur se così, a volte, alteri chiusi in se stessi, e quasi scocciati. Vediamo come vennero fatti probabilmente tra il IX e il VI seccolo a.C.; gli anonimi artisti che vivevano sudando e sbraittando nelle fonderie nuragiche, pur sognando di modellare monumenti grandiosi si impegnavano a far nascere queste mirabili “cosette”. Le figure sono fatte tutte gi getto e individualmente col metodo della cera perduta, per cui il bozzetto in questa materia si scioglie consumandosi quando, la massa di creta che l’avvolge e ne riceve in negativo l’impronta, si cola la lega metallica fusa che dà luogo, raffreddandosi e rapprendendosi, al positivo in bronzo. Da ciò deriva che i manufatti non sono il risultato di un atto ripetitivo meccanico, di una produzione in serie. Ciascun pezzo è invece una creazione a sé, una libera espressione, sempre diversa e originale. E se talvolta le statuine si assomigliano , o rivelano una tendenza alla maniera, ne è causa la memoria stilistica e non la mimesi materiale. Da un accurato esame eseguito negli Stati Uniti è emerso che sono veri bronzi contenendo tra 80 e il 90 per cento di rame e dal 5 al 10 per cento di stagno come maggiori componenti; ai quali vanno aggiunte varie percentuali di arsenico, piombo, zinco, ferro e anche d’argento, di nichel e di cobalto. Con uguale perizia, dalle fonderie nuragiche uscivano armi in quandi quantità: asce, spade, pugnali, punte di lance, stocchi. Anche per questo tipo di produzione il popolo dei nuragici mostrava di avere un’ottima conoscenza della tecnica di fusione, che consentiva di variare opportunamente la percentuale di rame per ottenere la durezza desiderata del metallo. Armi che sono simili a quelle raffigurate nelle statuine nuragiche.
I bronzetti sono stati rinvenuti in ogni parte della Sardegna e specialmente nella provincia dei Nuoro, forse perché in questa zona c'era l' abbondanza dei materiali e quindi di fonderie. Quasi tutti i bronzetti provengono da da pozzi e caverne sacre e da celle dei templi, dai luoghi di culto, quindi significa che avevano una funzione di ex voto, o di omaggio alla divinità. Per quanto riguarda i soggetti, i bronzetti si possono dividere in vari gruppi. Il primo é quello dei sovrani che hanno tutti solennità di portamento, emanante potere e forte volontà. Viene poi il gruppo dei soldati, che erano divisi in corpi: cavalleria, fanteria, arcieri, opliti e frombolieri ciascuno dei quali aveva la sua divisa o montura. Il gruppo più affascinate appare però quello misto che comprende figure varie: lottatori, pastore con ariete sulle spalle, il vecchietto offerente, la madre dell'ucciso, l'eroe o demone con quattro occhi e quattro braccia; per non parlare poi delle navi e barchette le cui prue erano modellate con teste stilizzate di animali. La bonzistica figurata protosarda dimostra genuine e irriducibili caratteristiche di una tradizione nazionale, di cultura geometrica e di cultura improntata al ribellismo mediterraneo. Come il grande fenomeno architettonico dei nuraghi e degli altri monumenti megalitici, queste sculture, modelli in piccolo della possente statuaria in pietra, sono il risultato ottimale di un processo e di un progresso civile che trovò energia nell' autonomia della cultura nuragica.

Dolce quiete...


La Marmilla, la terra delle Giare.


La terra delle Giare é situata nella Sardegna centro-meridionale, al confine tra la "bassa marmilla" e il "sarcidano", si estende su una superficie di 42 Kmq. Quest’area particolare si distingue dalle altre zone della Sardegna per alcune peculiarità ambientali. Il suo aspetto paesaggistico fa la differenza: un alternarsi morbido di colline e pianure circondate dai tavolieri basaltici di ori-gine vulcanica, che si formarono durante l'Era Cenozoica, Periodo Terziario, cioè circa 65 milioni di anni fa, quando questa zona della Sardegna era invasa dal mare e si formarono dei depositi di marna; in seguito si formarono alcune colline vulcaniche che poi furono ricoperte dalla lava fuoriuscita, la quale poi formò lo strato di roccia basaltica che oggi la ricopre. “Le Giare”, alti 500-600 metri i cui profili delimitano l'area al cui centro, inconfondibile, è il cono del "castello" di Las Plassas. Una natura misteriosa, come misterioso è il nome del luogo: la Giara, “sa Jara” nel sardo di queste zone, forse il residuo di un linguaggio remoto, precedente la conquista dell’isola. Giara forse come il risultato mutato nel tempo del vocabolo greco “glarea”, la ghiaia, dal ruvido pietrisco misto a ciottoli che ricopre l’intera superficie dell’altopiano. Un’isola nell’isola. La notorietà dell' altopiano, a livello internazionale, è dovuta alla presenza dei famosi "cavallini della Giara" che vivono allo stato brado, perfettamente in-tegrati nell'ambiente. Tali cavallini sono una specie tra il normale cavallo ed il pony, hanno il manto scuro e altezza che in media raggiunge il metro e ven-ti al garrese. Questa razza ha caratteri morfologici particolari che la diffe-renziano notevolmente dalle conosciute, tanto da far pensare che sia una razza primitiva conservatasi quasi intatta da migliaia di anni. La loro presenza sulla Giara è antichissima, come alcuni siti archeologici stanno a testimoniare. Sull'altopiano vivono anche la volpe, il riccio, la martora, e tra gli uccelli : alcuni rapaci come la poiana, poi il picchio, l'upupa e la ghiandaia.
Questo angolo della Sardegna non fa mostra di sé pur possedendo caratteristiche tali da porlo al centro dell'attenzione del movimento turistico; qui, in-fatti, si trova il complesso nuragico “ Su Nuraxi”, più importante dell'Isola, dichiarato nel 1997 dall'UNESCO patrimonio dell'umanità. La Marmilla è terra di tradizione contadina e come tale non ama gli eccessi né gli scalpori della pubblicità; tutto ciò che produce è però autentico e dì valore e non c'è visitatore che possa andare via insoddisfatto. Per cogliere alcuni aspetti di questo mondo ormai in via di estinzione, suggerisco una visita di qualche giorno che trascuri gli aspetti più tradizionali del turismo per addentrarci a piedi nei centri storici che hanno le tipiche strutture insediative e ti-pologie abitative dei centri rurali dove vive ancora la tessitura manuale di tappeti ed arazzi. Tutti i centri abitati sorgono intorno alla parrocchia ed al comune, con le case dei grandi proprietari, come quelle dei piccoli contadini, organizzate, salvo la dimensione diversa, tutte in funzione dell'attività produttiva. L'abitazione costituisce un'isola, delimitata com'è da muri di solito privi di aperture esterne, al cui interno sono raccolti tutti gli ambienti necessari alla famiglia, ivi compresi gli animali domestici mezzo di sostentamento diretto (pollame, maiali eccetera) o strumenti di produzione (buoi, cavalli). L'accesso è costituito da un portale ampio per il passaggio degli animali e dei carri, che immette in un grande cortile pavimentato con ciottoli. Di fronte un susseguirsi di arcate individuano subito "sa lolla" il porticato che fa da trait-d'union tra casa e cortile, sul quale si affacciano tutte le stanze; ai lati altre costruzioni adibite a ricovero di animali ed attrezzi. Il materiale costruttivo è rappresentato generalmente da pietre (trachiti, calcari, marne) per le parti portanti e per tutte le fondazioni sulle quali sono disposti poi mattoni di fango impastati con paglia ("ladiri"). Il legno veniva utilizzato per le travature e per la realizzazione dei solai adibiti prevalentemente a magazzino dei prodotti agricoli. Non è difficile visitare qualche abitazione, gli abitanti hanno la tradizionale cortesia dei contadini sardi noti per l'ospitalità ed il rispetto dell'ospite. Già questa visita diventa un itinerario inconsueto, il quale peraltro può essere arricchito da mille altri aspetti ambientali o culturali che ciascun piccolo paese della Marmilla offre.