Ricordo che rientrare nella Sardegna di una volta, diciamo di trentanni fa, era meravi-glioso e oggi rimane la nostalgia. "Era tutto bello". S'imbarcava la macchina a Genova la sera prima, senza problemi. Un aperitivo, una passeggiata sul ponte a respirare quell’aria assaporando il piacere del rientro... quanti delfini guizzavano attorno alla nave, saltavano fuori dall'acqua, e l'acqua era limpidissima, non si sapeva neppure cosa volesse dire ecologia... e poi tutti a cena. Quattro chiacchiere con i vicini, magari ricordando i giorni trascorsi nell’isola l’ultima volta e poi una bella dormita. E alla mattina un caffè, non proprio buono, e via. Io non facevo mai programmi, non volevo nemmeno decidere, fino all'ultimo, se cominciare subito la balneazione o il giro dei parenti.O se fare un bel giro dell’isola alla ricerca dei monumenti a me cari. Le strade erano libere, si percorrevano chilometri senza incontrare nessuno. Io credevo di sognare: "una mattina che andavo lungo la costa del Sinis. A un certo punto vado su una spiaggia, di quelle dove la sabbia è candida come la neve e il mare è verde smeraldo, e sento cantare. Mi fermo. Erano gli uomini di una barca da pesca che rientravano a terra, e il canto era dolcissimo, antico. Avevano molto pesce, tutto in un paniere di paglia a disegni neri, di quelli bassi e rotondi che oggi usano in arredamento, per metterci i giornali.
C’erano i vecchi patiti della Sardegna, eppure anche loro commettevano lo stesso errore che si commette oggi: anche per loro, infatti, la Sardegna era soltanto una strada che da Porto Torres andava ad Alghero, e poi a Bosa, a Oristano, a Capo Spartivento, a Cagliari e di qui risaliva dal Capo Carbonara a Orosei, a Olbia, a Santa Teresa di Gallura, per ritornare a Porto Torres do¬po aver fatto il giro dell'isola da occidente a oriente. Oppure al contrario, da oriente a occidente. Di tutto quello che stava dentro questo perimetro, segnato dalle spiagge bagnate dalle onde blu del mare e i verdi della macchia mediterranea abbarbicata alle rocce grigie e rosse della costa, neppure loro avevano conoscenza né coscienza. Il giro dell'isola tutto lungo le coste aveva un fascino così irresistibile che il resto non interessava, era come se non ci fosse. E gli stessi nuraghi - unico interesse archeologico allora riconosciuto - potevano indurre a qualche deviazione nell'interno, ma soltanto se la strada non fosse stata troppo lunga: interrompere lo spettacolo meraviglioso dato dal mare e dalla terra nei mille scenari del loro incontro, ora piano e dolcissimo, ora vertiginoso e drammati-co, sembrava veramente tempo perso. Turisti frettolosi che ignoravano totalmente la storia, gli usi e i costumi, evitando di conoscere la gente semplice ma nello stesso tempo orgogliosa di essere nata in quell’isola, di lottare per vivere in quell’isola che è una terra capace di odiarti e di ferirti, ma anche di amarti e renderti felice. Non provavano nemmeno a scoprire un'altra Sardegna: una Sardegna che c'è sempre stata, e che li attendeva anche prima. Ma prima l'equazione "Sardegna uguale mare" non si discuteva. Oggi forse è diverso. Oggi è più facile, o, se volete, meno difficile di un tempo spostarsi in automobile nell'interno. Oggi si ha conoscenza che la Sardegna non è solo nuraghi, pozzi sacri, tombe dei giganti. Oggi si ha la consapevolezza che Sardegna è civiltà, civiltà diversa, civiltà che ti assorbe completamente tanto da farti innamorare e desiderare di restare per sempre, per respirare i profumi della fitta macchia mediterranea di cisto, corbezzolo, mirto lentischio di cui i venti esaltano l’acuto profumo, immergendoti nei suoi paesaggi, ora dolci, ora selvaggi, e sempre incantevoli, vivendoli nella consapevolezza che di essi fai parte. Qui si hanno rapporti umani autentici un mondo che altrove è soltato memoria e qui è ancora realtà.
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