Si dice Sardegna e la prima immagine che esce dalla memoria oltre al nuraghe, e il mare cristallino è quella di un pastore. Soltanto il fucile che por¬ta a tracolla lo fa riconoscere come con-temporaneo: per il resto, il lungo manto di pelli che lo avvolge, il vincastro, il gregge, il cane e lo scenario dove solennemente si muove appartengono ancora alla preistoria, e ne conservano il fascino ancestrale. Si potrebbe pensare, per questo, che il pastore sardo dei nostri giorni esista soltanto nella di-mensione del folklore, come quegli ultimi indiani che dopo aver fatto la parte dei selvaggi danzando per i turisti negli alberghi americani vanno a riprendersi l'automobile e tornano a casa, magari per scrivere un romanzo o un trattato di fisica nucleare. Il pastore sardo, invece, lavora in una realtà, che è - per sua e nostra fortuna - sempre sostanzialmente la stessa, anche se ha saputo adeguarsi ai nuovi tempi. Il suo patrimonio, anzitutto, è cresciuto in quantità e qualità: le ultime statistiche regionali raggiungono un totale di quasi quattro milioni di ovini, metà dei quali nel solo territorio storico della Barbagia e il resto ripartito tra le province di Sassari e di Cagliari. E il progresso della veterinaria ha ridotto al minimo l'incidenza delle malattie che un tempo snellivano e degradavano il capitale zootecnico. Gli interessi di questo capitale, di conseguenza, sono più alti e assicurano gestioni più stabili. Dei tre milioni e mezzo di quintali di latte che si producono mediamente ogni anno, tolta la piccola parte del consumo diretto, tutto il resto è avviato alla trasformazione che per certi tipi di formaggio, come il famoso e squisito pecorino “Fiore Sardo”, è realizzata ancora negli ovili dagli stessi pastori perché nessuna tecnologia potrebbe raggiungere la stessa eccellenza, ma per altri avviene in moderni stabilimenti, ma questa modernità non vuol dire compromesso o sofisticazione. Da questi stabilimenti, circa cento in tutta l'isola, metà a gestione privata e metà a gestione cooperativa, escono ogni anno quasi 500 mila quintali di formaggio pecorino dei tipi "romano" e "sardo": cioè l'80 per cento dell'intera produzione nazionale in questo settore. Il pecorino “Romano” è al primo posto delle esportazioni di formaggio nazionale negli Stati Uniti e ci si stupisce nell'apprendere che il Parmigiano Reggiano - ottimo, ma anche più pubblicizzato e sostenuto dalla grande organizzazione - è solo al secondo posto in classifica, e con largo distacco.
Anche il "sardo", tuttavia, incontra crescenti favori sul mercato italiano ed estero. L'assessorato all'Agricoltura della Regione Sardegna sta promuovendo con varie iniziative la conoscenza di quest’ alimento tra i più naturali e sani, mentre è imminente il riconoscimento della denominazione d'origine controllata. Ma quando si dice Sardegna, s'intendono anche altri deliziosi prodotti. Il vino, per esempio, anzi i vini perché soltanto quelli doc sono sedici, dai forti e nobili rossi come il Cannonau, il Girò, il Monica, il Campidano ai bianchi vivaci come il Nasco, il Vermentino di Gallura, il Nuragus, la Vernaccia, ai rosati come il Carignano del Sulcis e il Mandrolisai. Questa isola straordinaria offre tanti altri doni della terra e del sole. Il tipico pane sardo, pane carasau è originario della Barbagia, conosciuto anche col nome di carta musica, proprio per la sua caratteristica sottigliezza. La preparazione del pane carasau era un vero e proprio rito che coinvolgeva almeno tre donne, amiche o parenti che ricevevano in cambio olio e ricotta. La pasta viene lavorata e tirata in dischi separati da panni di lino o lana sovrapposti. Per il forno si utilizzava legno di quercia, e la cottura del pane iniziava alle prime luci dell'alba. Quando il disco di pasta cominciava a gonfiarsi si rivoltava, e vi si appoggiava delicatamente una pala (tradizionalmente di legno) per favorire l'omogeneità della forma. Una volta sfornato, il disco di pasta veniva diviso in due con il coltello. A questo punto avveniva la seconda infornata necessaria al processo di 'carasatura'. Questo era il pane che i pastori potevano conservare per mesi nella solitudine delle transumanze. Poi c’è la scura, saporosa focaccia dei contadini "su civraxiu": la diversa lavorazione conferisce alla forma, un aspetto più o meno rigonfio secondo la tradizione del luogo in cui è prodotto; quasi a "pasta filante" nel "moddizzosu", pane tipico del Campidano, la cui caratteristica peculiare è la morbidezza della pasta e la consistenza notevole della crosta esterna. Il pane bianco, pane principe dei banchetti, "su kokkoi"… lavorato lungamente con la semola, sino a far diventare bianchissima la pasta, veniva ed è tuttora prodotto e consumato in occasioni di festività e di ricorrenze particolari. La bottarga dei cefali pescati nello stagno di Cabras e nelle lagune dell'Oristanese. A questo campionario di delizie vanno aggiunti i dolci che vengono ancora dalla preistoria del Mediterra-neo. Gli ingredienti sono infatti sempre gli stessi, le mandorle, gli agrumi e il miele: così nascono i sospiros di Ozieri, i candelaus del Campidano, i mustazzolus di Oristano, Pane’e saba, Pa-bassinas, Pirichittus, Amaretti, Miele, Torrone, Pistoccus, Pardule e Sebadas
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