giovedì 17 aprile 2008

L'eutanasia dei poveri

Le prime testimonianze scritte sull’uccisione rituale dei vecchi in area mediterranea risalgono all’antichità classica, in prevalenza intorno al III secolo a.C. questo rituale eutanasico, in ambito sardo era denominato “accabadura”. Dalla documentazione del mondo classico si rileva come gli ultra settantenni venissero messi a morte in onore di Saturno (Kronos), dio del tempo. Ai vecchi sarebbe stata fatta ingerire una particolare erba velenosa, autoctona della Sardegna, letale per gli uomini e dannosa per gli animali: l’erba sardonica, (oeneanthe crocata), in sardo appiu de riu che per sua stessa definizione cresce copiosa lungo i corsi d’acqua. Spesso condotti verso il loro ultimo destino dagli stessi figli, certo preda di sensi di colpa, i vecchi genitori venivano da essi costretti a masticare le foglie di questa pericolosa euforbiacea, il cui aspetto ricorda molto quello del sedano selvatico. Per la sua peculiare composizione biochimica, la pianta ingerita oppure solo strofinata sulle parti molli, esterne ed interne, del cavo orale, provoca una graduale trasfigurazione del volto, simile alle convulsioni generate dal tetano. I suoi effetti tossici determinano spasmi atroci e un’innaturale smorfia di dolore, cui segue fatalmente la morte. L’insieme del rituale veniva ad avere, così una manifestazione quasi iconica, che trovava nel ghigno innaturale della vittima il suo momento più alto, macabro e grottesco insieme. Questa ieratica fissità è la stessa della maschera del teatro greco, ove i confini fra commedia e tragedia restano sempre labilmente ambigui. Nel linguaggio metaforico, questo amaro e triste sorriso è definito “riso sardonico”, ed è appunto in tali termini che ne parla Omero, quando, nelle pagine dell’Odissea descrive l’espressione enigmatica del volto di Ulisse. In uno studio del 1879-80, Ettore Pais rintraccia la vera origine del risus sardonicus in un culto arcaico, diffuso nella Licia , e dedicato al dio Sardan. Tra il riso sardonico e l’accabadura, non esiste alcuna, non sussiste alcuna relazione consequenziale di causa – effetto, se legami si riscontrano tra i due fenomeni, essi sono di natura alquanto differente, sebbene li si trovi spesso connessi tra loro, pure in assenza di una origine comune ad entrambi. Tra le terre più remote, la Sardegna rappresentava l’”altrove” mitico, l’archetipo di un primordiale stato di natura, non ancora permeato da profondi afflati culturali: qui l’eliminazione fisica dei vecchi trovava la sua ragione di essere in un’economia di pura sopravvivenza, che riconosce come valide per sé solo le legittimazioni dettate da determinismi d’ordine materiale. Entro quest’universo economico conchiuso, improntato ai cogenti dettami di una struttura sociale rigida e poco evoluta, ove domina incontrastata la legge del più forte per natura, l’autosufficienza fisica dell’individuo è valore essenziale nella diuturna lotta per la sopravivenza per se stessi e per la comunità d’appartenenza. L’eutanasia si praticava in Sardegna fino a qualche decennio fa, soprattutto nella parte centro-settentrionale dell’isola. Gli ultimi episodi noti d’accabadura avvennero a Luras nel 1929 e ad Orgosolo nel 1952. Oltre i casi documentati, moltissimi sono quelli trasmessi oralmente alle memorie di famiglia. Molti ricordano un nonno o bisnonno che in ogni modo ha avuto a che fare con la signora vestita di nero, chiamata dai familiari del malato terminale, lo uccideva ponendo fine alle sue sofferenze. Un atto pietoso nei confronti del moribondo ma anche un atto necessario alla sopravvivenza dei parenti, soprattutto per le classi sociali meno abbienti: negli stazzi della Gallura e nei piccoli paesi lontani da un medico molti giorni di cavallo, serviva ad evitare lunghe e atroci sofferenze al malato. Sa femmina accabadora arrivava nella casa del moribondo sempre di notte e, dopo aver fatto uscire i familiari che l’avevano chiamata, entrava nella stanza della morte: la porta si apriva e il moribondo, dal suo letto d’agonia, vedeva entrare sa femmina accabadora vestita di nero, una delle gonne sollevata a coprirle il viso, e capiva che la sua sofferenza stava per finire. La figura di questa donna, che procurava quella che comunemente era chiamata la “dolce morte”. Una morte in anticipo per persone in agonia da lungo tempo, è espressione di un fenomeno socio-culturale e storico e la pratica dell’eutanasia “ante litteram” nei piccoli paesi rurali della Sardegna è legata al rapporto che i sardi avevano con la morte. Nella cultura della comunità sarda, non è mai esistita una vera paura di fronte agli ultimi istanti della vita dell’uomo. Si può anzi dire che i sardi avessero una propria e personale gestione della morte. Sorprende, però alla stessa pratica dell’eutanasia, il fatto che mai né la chiesa né lo Stato, pur sapendo dell’esistenza di questo particolare personaggio, abbia preso provvedimenti nei suoi confronti. In pratica era un’accettazione tacita dello stato delle cose, un personaggio a cui tutti prima o poi potevano far ricorso in caso di necessità. Eutanasia è un termine che incute tristezza e rispetto, su cui si sente spesso discutere, che in qualche parte del mondo è permessa, in molte altre decisamente proibita e rifiutata. In Italia, per esempio, non è consentito, per nessun motivo “staccare la spina” e anticipare la morte, neanche quando l'eutanasia è invocata e chiesta dal malato perché solo questa porrebbe fine a sofferenze atroci ed inumane. Ai tempi de s’accabadora, invece, l’Eutanasia sembra sia stata praticata, nella maggior parte dei casi, il malato si sopprimeva con un cuscino, in altri casi si usava uno strumento “sa mazzola” una sorta di bastone appositamente costruito e visibile presso il museo gallurese. Sta di fatto che sa femmina “accabadora” è andata in pensione non corre più nella notte ai capezzali dei moribondi…ed il suo strumento è finito in un Museo.

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